Folia Theologica et Canonica 6. 28/20 (2017)
IUS CANONICUM - Davide Cito, Interpretazione ed applicazione delle circostanze attenuanti: questioni aperte
202 DAVIDE CITO La dottrina sostiene tradizionalmente che un soggetto che abbia violato la legge in una condizione di perturbazione mentale volontariamente provocata è in certo grado responsabile del delitto commesso (anzi in ambito statuale per scoraggiare la diffusione di certi comportamenti pericolosi vi è un insprimento delle sanzioni come per gli incidenti stradali provocati da persone con tasso alcolico superiore al limite consentito). Il motivo è ciò che si chiama volontario in causa. Si può dedurre, come faceva il can. 2201 § 3 CIC (1917), che “delictum in ebrietate voluntaria commissum, aliqua imputabilitate non vacat, sed ea minor est quam cum idem delictum committitur ab eo qui sui piene compos sit”. Essendo voluta la causa che ha portato alla mancanza di uso di ragione e quindi indirettamente alla violazione della legge si può affermare che il delitto è imputabile a titolo di colpa come omissione volontaria della debita diligenza (can. 1321 §2). Ma perché si abbia imputabilità colposa occorre che l’omissione della debita diligenza ricorra non in senso generico bensì in quello concreto in cui la si può ravvisare come mancanza di diligenza dovuta. In altre parole occorre che l’evento lesivo in qualche modo fosse prevedibile, ma non fu colpevolmente previsto o, seppur previsto ed evitabile non fu evitato. Se ne deduce che un delitto commesso in uno stato di ebrietà imputabile è attribuibile al soggetto solo se in qualche modo l’evento dannoso era prevedibile quando questi era ancora lucido di mente. Ne consegue in primo luogo che se un soggetto, ad esempio, dopo essersi volontariamente o colpevolmente ubriacato commette un delitto non previsto e non prevedibile, tale delitto non è a lui imputabile, e la dottrina parla addirittura di un delitto dovuto al caso fortuito poiché non si ravvisa un nesso intenzionale tra la volontà di ubriacarsi e l’evento delittuoso. Da ciò si può dedurre una prima conclusione: ossia che l’incapacità di intendere o di volere occasionale esclude il delitto se è incolpevole (can. 1323, n. 6°), costituisce delitto colposo solo se era prevedibile, altrimenti è “giuridicamente” incolpevole, non costituisce cioè né attenuante né aggravante (ossia è irrilevante) anche se fosse premeditata al tine di commettere il delitto (can. 1325). In quest’ultimo caso abbiamo la punibilità piena ma non aggravata. Ma occorre anche sottolineare un altro aspetto di non poco conto, dovuto al fatto che il can. 1321 § 2 punisce i delitti colposi solo se la legge o il precetto prevedono la loro punibilità a titolo di colpa (ad esempio il can. 1389 § 2) ma non negli altri casi (che sono la maggioranza). E quindi se un delitto è solo doloso questa attenuante ne escluderà la punibilità. E questo mi sembra sia uno dei casi in cui le linee direttrici redazionali del libro V del Codice si scontrano con la realtà attuale della vita ecclesiale. Considerazioni simili potrebbero essere applicate alla fattispecie successiva, concernente il grave impeto passionale, per distinguerlo tra quello incolpevole (can 1323, n. 6° che porta alla mancanza di uso di ragione), che toglie l’imputa