Folia Theologica 8. (1997)
István Czakó: Abramo come paradigma del credente nel libro "Timore e tremore" di Soren Kierkegaard
206 I. CZAKÓ presto egli aveva intuito, nella preoccupazione religiosa paterna, una “disperazione silenziosa” e l’incubo della maledizione divina.32 Nei rapporti col padre ci furono anche momenti di tensione, che lo condussero, nel 1837, ad una separazione, sia pure amichevole, ehe peraltro fu di breve durata; difatti Spren si riconcilio sinceramente coi genitore poco prima della morte di lui, avvenutal F8 agosto 1838.33 Non è difficile scoprire l’analogia profonda e plurivalente fra la figura del padre e del protagonista dei “Timore e tremore”, Abramo, come quella tra Spren e Isacco: come Abramo si comporta negativamente contro Isacco affinchè il figlio non perda la fede, cost anche il padre verso Spren, da una parte certamente per motivi religiosi e dall’altra per rendere il figlio di costituzione fisiologica eccezionale più forte di fronte alia vita. Vale a dire ehe ambedue assumono un volto negativo in servizio del bene della persona amata: questo tratto comparirà anche nella relazione di Spren con Regina, ove prenderà una parte significativa nel suo comportamento. La morte del padre sconvolse Spren, specialmente perché il vecchio ottantaduenne gli rilevö un segreto di coscienza34 ehe lo colpî con violenza inaudita. Si produsse in lui un gran terremoto, ehe gli impose un nuovo metro di interpretazione di tutti i fenomeni. Questa “esperienza traumatica della colpa paterna”35 causava per Spren non soltanto un rinnovamento della condotta di vita, ma evidentemente apparivano in una nuova luce la malinconia del padre, trasmessa al figlio, e anche la misteriosa “spina nella carne”, cioè: egli ha ottenuto un nuovo fondamento per interpretare la propria vita, un nuovo punto di partenza verso l’esistenza autentica del Singolo. 32 Cfr. II A 806; IV A 148; V A 33. 33 “Io considero la sua morte come l’ultimo sacrificio che nel suo amore egli ha fatto per me, poichè con la sua morte non mi ha lasciato, anzi, egli è ‘morto per me’, affinchè si possa fare di me, se è possibile, ancora qualcosa.” Cit. da C. Fabro nell’ “Introduzione” per l’edizione di Opere 23. 34 Secondo la supposizione di Velocci: “Probabilmente il padre gli rilevô a ehe cosa attribuiva la maledizione di Dio ehe era convinto gravasse sulla propria vita e la propria famiglia: da ragazzo, pastorello nelle lande ventose dello Jutland, aveva (...) maledetto Dio per la sua vita piena di miseria e di sofferenza; inoltre, dopo la morte della prima moglie, per diversi mesi egli era vissuto maritalmente con la propria domestica che poi sposô nel 1797.” G. VELOCCI, Filosofia e fede in Kierkegaard, 225. 35 G.M. PIZZUTI, Perché, Kierkegaard lascio Regina, 464.