Folia Theologica et Canonica 2. 24/16 (2013)

IUS CANONICUM - Péter Erdő, Le liturgie orientali dopo la Sacrosanctum Concilium - Aspetti teologici e giuridici

LE LITURGIE ORIENTALI DOPO LA SACROSANCTUM CONCILIUM 151 condo il canone 2 del Codice di Diritto Canonico, sia secondo il canone 3 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali. Si osserva però una chiara differenza terminologica tra il codice latino e quello orientale. Mentre il can. 2 CIC parla di riti dicendo che il codice per lo più non determina i riti da osservarsi nella celebrazione delle azioni liturgiche, il can. 3 CCEO dice che “anche se il Codice si riferisce spesso alle prescrizioni dei libri liturgici, per lo più non decide in materia liturgica.” Alla luce dei lavori di preparazione del codice orientale risulta che il legislatore ha voluto lasciare fuori dal codice il diritto liturgico delle singole chiese sui iuris. Ciononostante fa spesso riferimenti alle prescrizioni dei libri liturgici. Il can. 3 CCEO sottolinea che le prescrizioni liturgiche devono essere osservate “a meno che non siano contrarie ai canoni del codice”. I principi direttivi positivi per lo sviluppo della liturgia orientale si trovano nei documenti conciliari già citati e anche nel n. 23 della Lumen Gentium, che nel contesto delle relazioni dei vescovi in seno al Collegio dei Vescovi, mette in rilievo che le varie chiese e gruppi di chiese (particolari) organicamente uniti godono di una propria disciplina, di un proprio uso litur­gico, di un patrimonio teologico e spirituale proprio” (LG 23c). Tra questi rag­gruppamenti spiccano le antiche chiese patriarcali che hanno generato altre chiese come loro figlie (cf. ibid.). Il codice orientale nel citato canone desidera essere concreto e invece di parlare delle norme liturgiche in generale, fa men­zione dei prescritti dei libri liturgici. Il motivo di questa scelta terminologica è il fatto che è stato determinato con tutta chiarezza, quale autorità può approvare i libri liturgici13 (CCEO c. 657). Malgrado lo sforzo chiarissimo di non usare la parola rítus in questo senso liturgico nel codice orientale, nel can. 828 CCEO è rimasta l’espressione rítus sacer riguardo la celebrazione del matrimonio. Il § 2 del canone 828 CCEO precisa che “questo rito si ritiene sacro con l’intervento stesso del sacerdote che assiste e benedice”14. L’altro senso della parola rítus, nettamente prevalente nel CCEO, viene definito nel can. 28 § 1 del codice orientale come “il patrimonio liturgico, teo­logico, spirituale e disciplinare, distinto per cultura e circostanze storiche di popoli, che si esprime in un modo di vivere la fede che è proprio di ciascuna Chiesa sui iuris”. Ciò significa che i riti di cui parla il codice orientale sono generalmente quelli che nascono “dalle tradizioni Alessandrina, Antiochena, Armena, Caldea e Costantinopolitana” (c. 28 § 2 CCEO). Così la categoria rito riveste il significato di una certa eredità che può servire anche come uno ma non l’unico dei criteri per distinguere le singole chiese sui iuris che nel codice latino (cc. 111-112 CIC) vengono chiamate ecclesia rituális sui iuris. In tal 13 Cfr. Nuntia 22 (1986) 14-15. Salachas, D., ad c. 3, in Pinto, P.V. (a cura di), Commento al Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, Città del Vaticano 2001.6-7. 14 Lederhilger, S., Ritus, in Haering, S. - Schmitz, H. (Hrsg.), Lexikon des Kirchenrechts, Frei- burg-Basel-Wien 2004. 855-857. Ohly, C., Ritus estpatrimonium, 411.

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