Folia Theologica et Canonica 5. 27/19 (2016)
RECENSIONS
266 RECENSIONS governo provvisorio e firmò la storica riforma agraria del 1945. che dissolse il latifondo (cf pp. 40-42). Ma ben presto il suo carattere mite, bonario, troppo schiettamente umano per gli anni del duro rigore stalinista, lo fecero retrocedere nelVélite governativa, e nel 1949 lo costrinsero all’autocritica proprio riguardo alla politica verso i contadini destinatari della terra. Per vendicarsi dello scisma di Tito, Stalin scatenò nelle democrazie popolari dell’Europa centro-orientale un’ondata di processi politici contro dirigenti comunisti: Nagy finì nel mirino, ma come vittima sacrificale gli fu preferito László Rajk, arrestato e condannato a morte nel 1949, pochi mesi dopo l'arresto ed il processo del Card. Mind- szenty, Primate d'Ungheria. Ritiratosi e consacratosi all’ insegnamento, anche per motivi di salute, Nagy venne progressivamente reinserito nel gruppo dirigente nei primi anni Cinquanta, finché, poco dopo la morte di Stalin, la dirigenza collettiva del Cremlino lo impose come nuovo primo ministro in un sorprendente incontro tenuto a Mosca coi leader ungheresi nel giugno 1953 di cui T A. dà ampiamente conto (cf pp. 63-70). Così il primo governo Nagy aprì un 'nuovo corso’, timidamente riformista nell’alveo della democrazia popolare, allentando i rigori dello stalinismo, che però non cessò mai di ostacolarlo ed ebbe la meglio destituendolo dal governo nell’aprile 1955 (cfpp. 75-99), fino ad espellerlo in dicembre dal partito, sua ragione di vita. In tal modo Nagy divenne il punto di riferimento dell’opposizione che nella società civile, specie tra gli intellettuali, si andava formando (es. il circolo Petőfi). Dopo il XX congresso del PCUS del febbraio 1956 il mondo comunista fu scosso da un deciso vento riformista antistalinista e l’ottobre polacco, con l’ascesa di Gomulka, e quello ungherese ne furono l’evidenza lampante. In quei tredici giorni (cf pp. 123-76), quelli che ‘scioccarono il Cremlino’, secondo il primo biografo di Nagy, Méray, il premier, ligio funzionario di partito, fu sorpreso e travolto, come tutti, dall’esplosione rivoluzionaria: egli non la volle, non la premeditò, riuscì a comprenderla a fatica e solo nei giorni dal 28 ottobre in poi entrò in sintonia con le richieste popolari, fino a dichiarare, di fronte al nuovo afflusso di truppe sovietiche deciso a Mosca il 31 ottobre, la neutralità dell’Ungheria e la sua uscita dal Patto di Varsavia. Il suo drammatico e disperato appello all’alba del 4 novembre, mentre la capitale magiara veniva attaccata in forze dai carri armati sovietici, resta, pur nella sua ambiguità, un grido di dolore inascoltato di tutto un popolo desideroso di libertà ed indipendenza, pur nel solco del socialismo. La sua cattura a tradimento, in spregio del diritto di asilo e di un salvacondotto scritto, all’uscita dell’ambasciata Iugoslava il 22 novembre, la deportazione in Romania, ed infine l’incarcerazione ed il processo segreto tenutosi a Budapest dal 9 al 15 giugno conclusosi con l’esecuzione capitale il 16 giugno (cf pp. 177-204), suggellarono il nuovo regime ungherese imposto da Mosca attraverso il ‘governo’ collaborazionista di János Kádár, esecutore di ca. trecento condanne a morte per partecipazione a vario titolo agli avvenimenti rivoluzionari, compresi alcuni minorenni all’epoca dei fatti che si aspettò